NUOVO MILLENNIO

L'ambientalismo

L’ecologismo politicamente corretto ha preso decisamente il sopravvento.
Le parole d’ordine non sono più crescita economica e
aumento della produzione industriale (quella che genera la ricchezza concreta e che ha portato il mondo a questo stadio di sviluppo).
Le parole che vanno oggi di moda sono la non crescita, il ristagno, la slow economy, l’economia solidale, la finanza solidale, il commercio solidale, l’economia etica, e chi più ne ha più ne metta.

Le imprese promettono miracoli inesistenti, perché le promesse non sono suffragate da risposte concrete, ma solo dagli inconcludenti luoghi comuni dell’ambientalismo.

I soliti moralisti, candidi e un po’ naif, fanno finta di non sapere o davvero non sanno quanto lo show biz alimenta il green biz e viceversa, in un rapporto biunivoco e un tantino perverso.

Sinora né il sole né il vento né l’acqua sono in grado di soddisfare i bisogni energetici del mondo industrializzato, nemmeno se camminasse a passo di lumaca, figuriamoci con la brama di cinesi e indiani che non credono a queste promesse.

Ma le pale a vento per sfruttare l’energia eolica sono descritte come capaci di far risparmiare un bel po’ di petrolio, carbone, uranio. Quanto, non è ancora chiaro né a quale prezzo. Un chilowattore generato dal vento costa più di uno prodotto con altre fonti. E in ogni caso, per rimpiazzare una quota significativa di combustibili fossili, non basterebbe nemmeno l’intera fabbrica di Eolo.

Ma non c’è spazio per questi calcoli da ragionieri.
Siamo in piena rivoluzione e guai a chi osa fermare la marcia del nuovo progressismo.

Tutti si fanno green.

Un premio Nobel come Paul Krugman non nega che gli interventi sul clima limiteranno la crescita, anche con un sistema come il cap and trade (imporre limiti e consentire alle imprese di scambiarsi le loro quote di emissione). Il progetto presentato dall’amministrazione Obama (tagliare le emissioni nocive, entro il 2050, dell’83 per cento rispetto ai livelli del 2005) ridurrà la crescita fino 3,5 punti. Ma attenzione, dice Krugman (per rientrare nel politicamente corretto), “una legge sul cambiamento del clima potrebbe incentivare una maggior spesa per gli investimenti”, dunque “è proprio questo il momento di agire”. Ma chi ci può credere?

Lo sprone verde riguarda l’insieme dei comportamenti, dal riscaldamento domestico al parco macchine, dalle fonti rinnovabili all’efficienza di macchinari e apparecchiature.

Il green biz diventa pervasivo nel momento in cui tocca ogni fase della vita individuale e collettiva e permea di sé i gangli dell’organizzazione economica, ma siamo sicuri che riuscirà a trasformare il nostro modo di vivere con lo stesso effetto dell’elettricità, dell’automobile o del computer?

Probabilmente no.
L’economia verde oggi rappresenta una piccolissima quota del pil europeo, il continente che più si è mosso in questa direzione, ma non si sa se e quando diventerà davvero il volano di un nuovo modello di sviluppo.

Le fonti rinnovabili costano un miliardo di euro l’anno e producono lo 0,5 per cento della domanda energetica, ma quando diverranno davvero efficaci ed economicamente efficienti è imprevedibile.

I pannelli solari godono di forti sussidi statali: hanno creato un bel business e prodotto senza dubbio qualche buon risultato. Ma un chilowattore solare costa persino più di un chilowattore eolico. E noi paghiano due volte: come utenti e come contribuenti. Non è una questione da taccagni.

Spesso si fa spendere denaro del contribuente senza ottenere i benefici previsti. Ciò vale in generale, e ancor più per la riconversione verde, perché il protocollo di Kyoto in questi anni non ha affatto impedito che la quota di CO2 liberata nell’atmosfera aumentasse in modo impressionante.

In pratica quello che l’Europa ha ottenuto di positivo è stato surclassato dall’attivismo americano e dalla frenetica rincorsa dei poveri.

Lula ha lanciato il Brasile nel bioetanolo e ha fatto di questo una delle leve per il suo incredibile decollo. Inutile raccontare che la benzina fatta con canna da zucchero ha un rendimento inferiore di un terzo, per produrla bisogna spianare vaste aree e consumare una quantità di combustibile equivalente.

Così il problema globale diventa un fatto politico globale.

Governi, stati, partiti e gruppi di pressione sono l’uno contro l’altro attenti per capire cosa veramente farà l’altro, né chi compirà il primo passo sul sentiero verde. Per uscire dallo stallo, dunque, servirebbe un arbitro che metta in fuga ogni mutuo timore. E tuttavia, non basta bilanciare gli interessi in contrasto.